Da L'Unità - 11 Giugno 2004
11.06.2004
«Ho le prove, nessun blitz. I terroristi rapitori sono stati pagati»
di Enrico Fierro
ROMA
Nessun riscatto pagato. Nessuna trattativa con i sequestratori. Gli ostaggi italiani sono stati liberati grazie ad un intenso lavoro di intelligence. Questo sostiene Silvio Berlusconi, questo ripetono e ripeteranno ossessivamente fino al giorno dell’apertura delle urne ministri ed esponenti della maggioranza. Ma al terzo giorno dalla liberazione di Agliana, Cupertino e Stefio, e nonostante il diluvio di dichiarazioni, le ore di trasmissioni tv e le fantasiose ricostruzioni di Berlusconi sulla nottata del blitz, molti sono i punti che non quadrano.
Gino Strada, fondatore di Emergency, propone un’altra verità. Che smonta pezzo per pezzo quelle ufficiali e governative. Primo: «La trattativa c’è stata e ai rapitori è stato pagato un riscatto di 9 milioni di dollari». Secondo: «I prigionieri italiani erano detenuti a pochi chilometri da Baghdad». Terzo: «Non c’è stato nessun blitz, nessuna azione armata. I tre ostaggi italiani e l’imprenditore polacco sono stati semplicemente consegnati alle forze della coalizione». Come si vede, ce n’è a sufficienza per fare esplodere una santabarbara di polemiche. Ma Strada, se fa queste affermazioni, evidentemente sa quello che dice. L’uomo conosce bene la realtà irachena, dove con Emergency opera dal 1995. «Abbiamo curato 300mila persone senza mai chiederci a quale etnia, a quale gruppo politico, a quale religione appartenessero. Abbiamo aperto ospedali e centri di cura». Una attività che gli ha fatto guadagnare la stima degli ambienti politici e religiosi che contano. Contatti importanti che Strada ha utilizzato fino in fondo quando è stato chiamato ad occuparsi della sorte degli ostaggi italiani nelle mani delle «Falangi verdi di Maometto». Vale la pena fargli alcune domande.
Strada, lei conferma che per la liberazione degli ostaggi è stato pagato un riscatto?
«Certo che sì».
Può indicare una cifra?
«Nove milioni di dollari».
Pagati da chi?
«Evidentemente da autorità italiane».
E versati a chi?
«Prima di fare i nomi pazienti un attimo. Perché della storia del riscatto io ho sentito parlare già a fine aprile. Eravamo ad Ammann, in Giordania, in attesa di passare in Iraq. Fonti da noi contattate ci dissero che c’era già un tentativo di trattativa in atto con personaggi legati alla mafia irachena...»
Mafia irachena?
«Sì, in Iraq definiscono in questo modo quel mondo - molto ampio - di personaggi dediti agli affari che sono riusciti ad arricchirsi con Saddamm, l’embargo e che ora fanno business con la guerriglia».
Ci dica i nomi.
«Ci hanno parlato di Salih Mutlak, un facoltoso commerciante molto attivo nel periodo dell’embargo, e di un personaggio di natura diversa già noto agli italiani, Abdel Salam Kubaysi, ulema sunnita e docente all’università di Baghdad».
Lo stesso personaggio attivato dalla Croce Rossa e dai servizi italiani?
«Esatto, lo stesso personaggio»
Continui il suo racconto.
«All’epoca, siamo all’inizio della nostra missione umanitaria per salvare gli ostaggi, ancora non si era parlato di una cifra, ma ci era stato detto che in molti tentavano di risolvere il problema ostaggi in nome del governo italiano tramite il pagamento di un riscatto. Ciò detto, noi decidemmo di andare avanti lo stesso e continuammo ad attivare contatti e a lanciare messaggi ai rapitori. Messaggi semplici: liberate i prigionieri, fate un gesto di umanità. Un lungo lavoro che ha dato dei frutti, tanto che dieci giorni fa eravamo arrivati alla sostanziale conclusione della vicenda. Nel senso che quando io sono rientrato da Baghdad i messaggi che avevo erano rassicuranti: gli ostaggi sono vivi, c’è la disponibilità a lasciarli andare ma il processo richiederà molto tempo. Poi, però, è intervenuto un intoppo».
Di che tipo?
«I nostri punti di contatto, ad un certo punto, ci dicono che chi detiene gli ostaggi è molto sorpreso, quasi irritato e ha delle domande da farci. Vogliono soprattutto sapere se il personaggio iracheno che li ha avvicinati e che gli ha offerto 9 milioni di dollari ha a che fare con noi. Noi gli abbiamo risposto che erano tutti matti. Dare dei soldi non rientra nel nostro stile, noi chiedevamo ai rapitori un gesto umanitario. Senza contropartite alcune».
Da allora ha ricevuto altri messaggi?
«L’ultimo quattro giorni fa, e dopo che era stato trasmesso l’ultimo video sugli ostaggi. Proveniva da influenti autorità religiose...».
Gli Ulema sunniti?
«No, altre autorità religiose. Mi dicevano di stare tranquilli e che la liberazione sarebbe avvenuta nei prossimi giorni. Poi le cose hanno preso una piega diversa».
Cosa è successo, secondo lei?
«Le nostre fonti ci hanno raccontato alcune cose. La più importante è che c’è stato un tradimento nel gruppo dei sequestratori. Nel senso che qualcuno aveva accettato la soluzione umanitaria proposta da Emergency, mentre altri hanno pensato di lucrare un bel po’ di soldi su quella vicenda. Nove milioni di dollari, questo è il prezzo pagato».
Le sue fonti le hanno detto anche dove sono stati liberati gli ostaggi?
«Sì, l’ultima prigione era ad Abu-Ghraib, un sobborgo ad 11 chilometri da Baghdad, dove sono stati spostati subito dopo che i sequestratori hanno incassato il riscatto».
Ha notizie sulle modalità di liberazione?
«Le stesse fonti mi dicono che non c’è stato alcun blitz, c’era solo un carceriere e gli americani hanno prelevato gli ostaggi senza sparare un colpo. Ecco: questo ci hanno raccontato le nostre fonti e questo riporto per amore di verità, consapevole che quello iracheno è un mondo molto strano».
Un’ultima domanda: durante la sua permanenza in Iraq lei ha mai avuto l’impressione che l’attività di Emergency in favore della liberazione degli ostaggi venisse ostacolata?
«L’ho detto, ne ho parlato. Ad un certo punto ho avuto l’impressione che vi fossero tentativi molto forti di ostacolare la nostra iniziativa ormai arrivata a conclusione».
Ha amarezze?
«No, sono felice per la salvezza di tre vite. Tutta Emergency è felice perché gli ostaggi italiani sono vivi e finalmente liberi. Sa, il senso del nostro lavoro è quello: portare a casa vite umane, salvare uomini al di là delle convenienze politiche. Siamo una organizzazione umanitaria e mi creda: in questa parola ci sono mille significati. Tutti importanti».
L’intervista è finita. Per completezza di informazione va detto che il sito «Peacereporter» (legato all’organizzazione Emergency) fornisce nuovi dettagli sulla liberazione degli ostaggi.
L’ultimo covo: viene confermato che gli italiani e il polacco erano ad Abu-Ghraib e precisamente in una casa del numero 17 di Zaitun Street. Dei testimoni raccontano che lunedì (il giorno prima della liberazione) in quella strada si è sentito «un gran trambusto». Un vicino rilascia la seguente testimonianza: «Ho visto arrivare alcune auto e fermarsi davanti a quella casa. Sono entrate un po’ di persone. Era buio, non abbiamo visto bene. Poco dopo se ne sono andati via ed è tornata la calma. Il mattino seguente, intorno alle 9,30, sono arrivate cinque auto militari americane, di colore verde oliva... Ne sono scesi alcuni uomini vestiti in abiti civili... Hanno aperto la porta dell’abitazione senza forzarla, come se fosse già aperta, e sono riusciti con quattro uomini... Li hanno caricati su un furgoncino bianco e se ne sono andati via. Il tutto con la massima calma. Non è stato sparato un colpo...».
Il sito cita tre iracheni che abitano in quella strada. Un’altra fonte, che parla con «Peacereporter», si tratta di un personaggio legato alla guerriglia, racconta i particolari del riscatto facendo gli stessi nomi che Strada fa nella nostra intervista.